martedì 28 settembre 2010

Newsletter n.33/2010 - Adro: una lettera

Signor direttore,
le scrivo per ringraziare le tante, tantissime persone che sabato sono venute ad Adro per protestare contro un sindaco che, con la scuola pubblica, si comporta come fosse una sua proprietà. Peccato per la pioggia: le tante bandiere italiane non hanno potuto sventolare nel sole, proprio perché pioveva; ma sono state un bellissimo spettacolo: mi sono sentita rincuorata e, anche se ho osservato il tutto solo dalla finestra, ho pianto di gioia.
Le assicuro che se nel corteo avessi visto sfilare persone di Adro che conosco, sarei scesa anch'io.
Ma capisco i miei compaesani: come me sono stati condizionati dalla paura di essere all'indomani indicati a dito da altri come traditori. Perché, vede signor direttore, qui ad Adro viviamo come in un paese assediato: sospettiamo l'uno dell'altro; abbiamo paura a dire quello che pensiamo perché sentiamo di non sentirci liberi.
E' come se vivessimo in un periodo di cui ho letto sul libro di storia; cioè come se sentissimo il dovere di dirci in tanti: "Silenzio, lui e i suoi ti ascoltano!" e abbiamo paura che qualche furbo trovi il modo di fartela pagare, come ha già fatto in tante occasioni. Una certa ditta per i rifiuti ci ha intossicato l'ambiente, ma guai a dirlo, perché la proprietà della ditta... Il sindaco ha fatto varianti all'uso delle aree, così che ognuno teme che domani tocchi a lui sentirsi dire che lì passerà una strada, che quell'area è edificabile oppure no; che quelle modifiche che magari vuoi fare alla tua casa, ti vengano proibite...
Senza accorgerci, lentamente in tanti noi ad Adro ci siamo lasciati invadere dalla paura, non degli stranieri, ma del capo del Comune che, avendo ricevuto da tanti altri di noi i voti, si comporta come il padrone di tutto e di tutti. Una volta ero convinta che lui fosse convinto di fare il bene di Adro, ma dopo la figuraccia prima per la mensa scolastica e adesso con la scuola del Sole delle Alpi, siamo in tanti a doverci svegliare dal sonno profondo a causa del quale non ci siamo più occupati delle cose della politica, pensando che tanto... chiunque fosse stato eletto, qualcosa di buono avrebbe fatto.
Invece ci siamo sbagliati ed io spero proprio che la manifestazione di sabato abbia convinto tanti
come me che non si può restare chiusi in casa e permettere ad altri di fare i loro comodi. Ringrazio di nuovo tutti i partecipanti alla manifestazione di sabato; mentre passavano io ho pregato il Rosario perché non succedesse niente di grave. Chissà se del fatto che ho pregato sono stati contenti i sacerdoti di Adro; non capisco più niente nemmeno di quelli, perché più che a predicare il Vangelo, mi sembrano impegnati a far politica col sindaco. Ho pregato comunque anche per loro.

Una cristiana di Adro

BresciaOggi – lettere al Direttore, 21 settembre 2010

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martedì 21 settembre 2010

Newsletter n.32/2010 - La discriminazione invisibile

Osservando ciò che mi sta intorno per notare il dettaglio stonato, ne trovo tanti anche dentro di me. Mi viene in mente una storia, che non so se può chiamarsi storia visto che è realtà, esperienza presente. E così decido di partire da questa storia reale per osservare come agiscono già dentro di me inconfessate discriminazioni di cui mi scopro responsabile.
Quando si parla di discriminazioni non sempre è necessario focalizzare lo sguardo su razza o
religione dell’oggetto osservato. Tutto può essere discriminato, separato, allontanato…
Le scelte quotidiane sono spesso discriminatorie; la ricerca della meritata quiete e il desiderio della semplificazione possono talvolta essere discriminatori: scegliere la via più facile lascia al loro destino tutti coloro che ingombrano le altre vie.
E in questo mio quotidiano mi capita di osservare una mamma che per il fatto di avere più di due figli scopre di essere poco cercata o invitata per quei momenti di svago tra amiche di cui tutte noi
possiamo sperimentare il piacere ogni volta che accadono o ci vengono proposti. Ma con tre bambini non sarebbe tanto uno svago…
Osservo che questa madre è anche tagliata fuori dal mercato del lavoro perché offre bisogni, ma questo si sa… O, quanto meno, i bisogni sono la cosa più visibile della sua vita. In realtà offre molto di più, con tutte le cose che sa fare. È tagliata fuori dall’accesso ai consumi, anche quelli stupidi e superflui, dai quali invece ciascuno di noi si lascia volentieri tentare (e a volte cede), e anche lei sarebbe spinta a cedere. È impedita nella fruizione delle proposte culturali della città: il cinema, il teatro, il festival… come si fa con tre?
La reazione spontanea dell’uomo comune della strada (e della donna comune) è peggiore del disagio che lei prova: “Perché ne ha fatti tanti nella sua situazione?”. È il coltello che taglia via quel residuo di autostima grazie al quale lei pensava di potercela fare. Anche da sola. Anche se il compagno ha dovuto cacciarlo via per motivi gravi, per le violenze quotidiane che sembravano normalità, finché non ha capito che di violenze vere si trattava. È un coltello che la separa da noi ‘fortunate’.
Osservare da fuori è già in parte discriminare, separare da sé, pur essendo necessario a volte mettersi al di fuori per poter vedere, per poter aiutare a vedere la propria condizione, che non è l’unica condizione possibile, non è assegnata dal destino.
Questa storia è vera, accade vicino a noi, e non è solo una. Sono tante, ma il pudore delle protagoniste le tiene velate. Eppure alcuni di noi (gli altri) abbiamo occhi anche specialistici, professionali per vedere… mi viene il dubbio che “essere professionale” voglia dire assegnare la pratica a un percorso e metterla poi in una casella delle “evidenze”. Uso il linguaggio amministrativo perché è quello che le protagoniste di queste storie si sentono spesso rivolgere, è il linguaggio che io stessa a volte uso, forse per separare da me un’ “evidenza” insopportabile, se dovessi davvero entrarci. Metto a tacere i sensi di colpa con la sicurezza di aver evaso bene una pratica (sostantivo) avendo fatto il possibile. Ma nella vita pratica (aggettivo) ci sono tempi e azioni diverse. Cose che accadono anche mentre le nostre pratiche-sostantivo giacciono in attesa delle “integrazioni richieste”.
Osservo questa madre, questa donna, questa storia, con il profondo sconforto della mia autostima che vacilla a questo punto, il punto in cui scopro che anch’io scelgo strade facili lasciando gli altri alle loro personali salite. Mi sento stonata in un coro stonato.

Lucia Papaleo

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martedì 14 settembre 2010

Newsletter n.31/2010 - Giornalismo genetico

La presenza di questo gene nel sangue è la dimostrazione che questi
zingari sono esseri irrecuperabili.
Eva Justin, scienziata razzista a servizio del regime nazista

I rom […] e l’illegalità insita nel loro DNA
Roberto Poletti, giornalista, 9 settembre 2010

La Commissione Europea ha aperto ieri una procedura di infrazione nei confronti della Francia per l’espulsione delle persone rom. Questa è l’unica notizia confortante nella lettura della rassegna stampa in una settimana non affatto rassicurante.
Molti giornalisti si confrontano con la realtà rom, una realtà complessa e variegata, usando impunemente stereotipi che hanno accompagnato le mille vicende di persecuzioni subite nel corso dei secoli dalle popolazioni sinte e rom. Essi dimostrano, attraverso i loro commenti, di aver perso ogni senso del limite.
Rom accostati indistintamente a delinquenti; rom visti esclusivamente come un problema, una massa indistinta da eliminare, espellere, deportare; rom descritti come un gruppo generalizzato, privati della loro individualità.
Articoli che ci dimostrano quanto il sentire anti-rom sia fortemente radicato nella società, quanto esso sia condiviso, scontato, quanto esso non faccia scandalo. Nei confronti delle minoranze rom e sinte, ci si permette di dire qualsiasi cosa senza il timore di essere condannati. E’ preoccupante il clima di assuefazione che si è venuto a creare nella società italiana di fronte alle violazioni subite da tali minoranze.
L’articolo di commento I rom sono un problema della Romania (Cronacaqui, 11/9) si distingue fra i tanti letti questa settimana per i suoi contenuti razzisti. Francesco Bozzetti a proposito della “questione rom” propone alcuni suggerimenti come, per esempio, impedire la circolazione dei rom in Europa, suggerendo in sintesi di violare la direttiva europea sulla libera circolazione delle persone: “[…] alla Romania […] avremmo come minimo dovuto chiedere di impedire la libera circolazione dei delinquenti e dei rom, che sono da sempre un loro problema, una loro etnia. Gli stessi romeni non amano i rom, non li vogliono e li ‘esportano’ volentieri all’estero come fanno con i loro criminali”.
Riferendosi alla situazione milanese aggiunge “[...] periferie, sottoponti e fabbriche dismesse invase dalla peggior specie di zingari dediti a furti, spaccio di stupefacenti”.
Esemplare, poi, per i suoi contenuti è il seguente articolo: Sottile differenza tra PD e destra sulle case ai rom (Libero Milano, 9/9). Il giornalista Roberto Poletti, nella rubrica intitolata Grane, spiega la differenza fra i due schieramenti politici a proposito della questione dell’attribuzione dei 25 alloggi Aler (alloggi che escono dalla graduatoria ufficiale) ad alcune famiglie rom che attualmente risiedono nel ‘campo’ di Triboniano.
Inizio a leggere l’articolo e ad un certo punto mi imbatto in una teoria classicamente razzista: “l’illegalità insita nel loro DNA”.
Leggo e rileggo più volte, sperando di essermi sbagliata: DNA, DNA?
Purtroppo non è così, ho letto bene, il giornalista ne fa proprio una questione genetica. Già i nazisti, attraverso i loro scienziati razzisti, avevano elaborato una pseudo teoria sulla pericolosità della ‘razza zingara’ tarata da un gene molto pericoloso, il Wandertrieb (l’istinto al nomadismo). Questo bastò a condannare rom e sinti allo sterminio.
Per un attimo mi si annebbia la mente, rimango basita, sconvolta e profondamente lesa nella mia stessa identità.
Frasi come queste pesano e pesano come macigni, perché sei sinta e rom, se sai cos’è il Porrajmos, se la pianificazione razzista e omicida del passato ha colpito la tua famiglia, se solo per caso i tuoi cari sono riusciti a scampare alla furia del regime nazifascista e alle fiamme dei lager; se ogni giorno ti accorgi di quanto il tuo Paese abbia dimenticato quel passato, e anzi ne invochi il ritorno, frasi come quelle ti fanno inorridire.
E io sono sinta.

Visto che ci sono giornalisti che violano quotidianamente il codice deontologico attraverso l’istigazione all’odio e al razzismo mi sembra doveroso, e storicamente corretto, ricordare che furono più di 500.000 le persone rom e sinte vittime dello sterminio pianificato e commesso dal nazi- fascismo.
Domenica 5 settembre ho partecipato alla celebrazione della Giornata europea della cultura ebraica. Mi hanno colpito fortemente le parole del Presidente della Comunità ebraica di Mantova Fabio Norsa, quando ha ricordato ai presenti che gli Ebrei non vogliono essere relegati all’immagine di vittime della Shoah ma considerati comunità portatrice di una cultura millenaria. Ho provato un po’ di invidia per quelle parole: quando sarà possibile per noi sinti e rom fare un passo del genere?
Anch’io, come capita a molti ebrei, desidererei non dover tornare sempre sul tema del genocidio, ma purtroppo gli stereotipi, i pregiudizi e le barriere da superare sono ancora infiniti.
Forse tutto ciò sarà possibile solo se ci sarà una concreta elaborazione di quello che è stato il genocidio dei rom e dei sinti.
Purtroppo però la nostra è una memoria mutilata, completamente ignorata da molti.
Oggi per molti sinti e rom non è nemmeno possibile dichiarare la propria identità, se dichiararti per ciò che sei significa essere automaticamente equiparato al peggiore dei criminali.
Il Porrajmos però fa parte della storia d’Italia e d’Europa e tutti hanno il dovere di sapere e di tenere a mente, giornalisti compresi.

Eva Rizzin

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martedì 7 settembre 2010

Newsletter n.30/2010 - Il cattivo esempio dei cugini d'Oltralpe

Questa volta è il turno della Francia. Dopo il crollo di consenso nelle elezioni regionali, la faida interna con l’ex-primo ministro de Villepin che prepara una scissione, e una serie di scandali più o meno seri – inclusa una scenata di gelosia sul set di Woody Allen – il presidente Sarkozy corre ai ripari. Qualche anno fa, nel 2005, furono le auto bruciate nelle banlieue di Parigi, Lione, Marsiglia a fornire all’allora astro nascente della politica francese e ministro dell’Interno l’occasione per inscenare lo spettacolo del ‘law and order’. È tempo di un remake, ma questa volta sono i rom a fornire la materia prima e l’Italia di Berlusconi e della Lega a metterci il canovaccio. E allora assistiamo di nuovo a rimpatri di massa, ai blitz dei poliziotti mandati nei campi rom alle cinque di mattina a spargere terrore tra donne, uomini e bambini insonnoliti, alle ruspe che li accompagnano e distruggono baracche di fortuna e con esse ricordi di famiglia, foto, pupazzi di pezza e giocattoli.
Tutte cose che abbiamo già visto nel passato recente e lontano, ma questo non diminuisce il disgusto e il senso di profondo orrore per una politica che cerca capri espiatori nei più deboli, in quelli che hanno meno risorse per difendersi.

Il fatto che tra i rom ci siano anche alcuni che commettono reati, non mancherà qualche criminologo a ricordarcelo, non rende queste misure che colpiscono i rom tutti indistintamente in quanto gruppo etnico meno violente e oltraggiose. E se proprio si vuole parlare di crimini e reati, di giustizia, moralità e sicurezza, non si può che constatare l’assurdità e l’assenza di senso del ridicolo di politici corrotti e corruttori, inquisiti per reati gravi e a volte gravissimi che fanno la morale e si accaniscono contro delle persone che per sopravvivere talvolta rubicchiano una borsa, una pecora, dei pezzi di metallo, qualche volta un appartamento.
Il senso di oltraggio per queste misure è diffuso, a macchia di leopardo, in tutta Europa e oltre, ma con qualche assenza di rilievo.
Mancano, come era già accaduto nel 2008 in Italia, le voci dei partiti socialdemocratici, di quelli che per calcolo elettorale non possono abbandonare le parole d’ordine della sicurezza, e che dovrebbero invece affrontare in maniera ben più complessa la questione dei pregiudizi razziali e la lotta alle discriminazioni. Mancano, o sono comunque appena udibili, le parole dei politici romeni e bulgari sempre un po’ a disagio a dover prendere le difese dei rom e preoccupati piuttosto da eventuali ritorni di massa. E manca la voce della Commissione Europea in forte difficoltà a criticare uno degli assi portanti dell’Unione.

Ora aspettiamo con preoccupazione i risultati del vertice dei ministri dell’Interno dell’Unione Europea convocato dalla Francia. Maroni e il governo italiano non hanno mancato di esprimere soddisfazione per aver fornito al cugino francese un modello di intervento da seguire. Il rischio a questo punto è che il modello italiano di gestione dei migranti rom, con l’avvallo della Francia e di qualche altro governo in cerca di facile consenso, da eccezione diventi invece la norma. E che la ripetizione, il lento lavorio, i graduali slittamenti della soglia dell’accettabile e del tollerabile finiscano col produrre assuefazione e rendere normali le misure di esclusione razziale verso le comunità rom.

Nando Sigona, Refugee Studies Centre, Università di Oxford e OsservAzione

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