martedì 21 dicembre 2010

Newsletter n.45/2010 - Discutendo di "Nonostante Auschwitz: il 'ritorno' del razzismo in Europa", con Alberto Burgio*

Venerdì 10 dicembre scorso il circolo ARCI di Mantova intitolato a Nelson Mandela ha tenuto la sua prima manifestazione pubblica incontrando il prof. Alberto Burgio, intervistato da Enrico Grazioli direttore de «la Gazzetta di Mantova» sul tema del ritorno del razzismo nell’Europa e nell’Italia contemporanee. All’incontro ha dato la sua adesione Amnesty International, Gruppo Italia 79, nell’anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani.
Burgio, Preside della Facoltà di Filosofia dell’Università di Bologna, è fra i non molti studiosi italiani che quindici anni fa hanno aperto una nuova fase negli studi sui caratteri, il radicamento, la diffusione del pregiudizio razzista nel nostro paese. Il razzismo italiano è parte integrante dei percorsi di costruzione dell’identità nazionale dopo il 1861 e delle politiche di conquista coloniale promosse dal Regno d’Italia e dal Fascismo che trovarono compimento e organicità nella legislazione razziale del 1938. Il razzismo italiano si è declinato in varie direzioni e contesti: l’antisemitismo che si rifaceva alla più antica tradizione cattolica antigiudaica elaborandola, l’antimeridionalismo degli antropologi positivisti di fine ‘800, il pregiudizio e la discriminazione contro le popolazioni slave ai confini orientali, l’anticamitismo e l’antiarabismo contro i popoli africani delle colonie per i quali il Fascismo arrivò a elaborare politiche di apartheid un decennio prima di quanto avvenne in Sud Africa. Il razzismo italiano si è inoltre sempre condito dei più tradizionali stereotipi che hanno colpito le donne, i proletari, le persone ritenute irregolari e asociali delle quali l’esempio più rilevante è lo stigma contro i sinti e i rom. Il razzismo crea, dà corpo all’esistenza di una umanità deteriore, degenerata, persino indegna di vivere; offre certezze sulla possibilità di una umanità ordinata secondo gerarchie basate su leggi “naturali” e per questo indiscutibili, perenni. Di qui la sua forza e la sua efficacia di mito propagandato e diffuso dagli imprenditori della paura dell’Altro. Ma le “razze umane” non esistono come non esistono differenze “razziali”, le “razze umane” sono un’invenzione. Tale asserzione, confermata scientificamente sui solidi dati delle ricerche della genetica delle popolazioni, è spiegata anche dal razzismo senza differenze somatiche di cui l’antisemitismo è l’esempio più clamoroso: infatti gli ebrei non sono mai stati diversi dagli altri italiani per tratti somatici o colore della pelle. Questo aiuta a spiegare perché gli ebrei fossero costretti a portare la stella di Davide cucita sugli abiti, per poterli facilmente riconoscere. Altrimenti non sarebbero stati distinguibili. In assenza di differenze somatiche i razzisti elaborano differenze “morali” o “spirituali” a giustificare la discriminazione. Nel corso della serata si è discusso in toni preoccupati, ovviamente, delle politiche in atto di criminalizzazione dei migranti fatti diventare, per legge, “nemici interni”, “colpevoli naturali”, come dimostrano innumerevoli fatti di cronaca. Qui c’è sì l’opera degli imprenditori della paura e dell’insicurezza in tempo di crisi, ma anche la difficoltà ad argomentare e contrapporre sui mezzi di informazione risposte forti ed efficaci. Il ricco dibattito e lo stesso direttore de «la Gazzetta di Mantova» ne hanno dato testimonianza. I miti razzisti, miti perché senza fondamento nella realtà, forniscono facili capri espiatori così svolgendo una funzione di rassicurazione, distraendo da ansie e interrogativi più inquietanti. Ma i miti razzisti inducono pratiche e legislazioni discriminatorie e liberticide che indeboliscono la qualità della vita democratica, fino a minarla.

* A. Burgio, Nonostante Auschwitz, il “ritorno” del razzismo in Europa, DeriveApprodi, Roma 2010

Luigi Benevelli

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lunedì 20 dicembre 2010

Vacancy - Addetta/o monitoraggio stampa

Alla luce dell inizio (a febbraio 2011) del progetto europeo "In other WORDS - Web Observatory and Review for Discrimination alerts and Stereotypes deconstruction", che prevederà l'allargamento del monitoraggio della stampa alle testate nazionali, l'Osservatorio sulle Discriminazioni cerca una nuova figura da inserire nel proprio staff.

FIGURA RICHIESTA: addetto monitoraggio stampa

SETTORE: comunicazione

AREA: attività redazionale, contrasto alle discriminazioni

CONTRATTO: a progetto

DURATA del CONTRATTO: 1 anno (febbraio 2011-gennaio 2012), rinnovabile fino a gennaio 2013

IMPEGNO RICHIESTO: 2 giorni/settimana

COMPENSO: 7000 € lordi annui

SEDE DI LAVORO: Mantova

REQUISITI ESSENZIALI:

- Inglese livello advanced

- Laurea

- Abilità nella comunicazione scritta

- Familiarità con i temi dell’antidiscriminazione e dei media

CARATTERISTICHE PERSONALI:

- Flessibilità e attitudine al lavoro di gruppo in contesti cross-community

- Interesse per il lavoro di contrasto alle discriminazioni

- Autonomia e capacità di lavorare per obiettivi

A PARITA' DI TITOLI, LA PRIORITÀ SARÀ ACCORDATA A:

- candidate/i appartenenti ad una “minoranza” (persone con disabilità, appartenenti alla comunità LGBT e a minoranze religiose, Rom e Sinti, migranti, )

- candidate/i con esperienza pregressa di lavoro nel settore o con formazione specifica

MANSIONI:

- partecipazione alle attività di monitoraggio della stampa, alla redazione della newsletter settimanale e della newsletter europea in inglese;

- partecipazione alle varie attività previste dal progetto “In other WORDS”.


Inviare CV in formato europeo e lettera di presentazione entro il 4 gennaio a osservatorio.articolo3@gmail.com

martedì 14 dicembre 2010

Newsletter n.44/2010 - Religioni a scuola

In queste convulse giornate parlamentari Giovanna Melandri, deputato Pd, ha presentato un disegno di legge che prevede l’istituzione di un’«Introduzione alle religioni» nella scuola superiore. La proposta è stata sottoscritta da una ventina di parlamentari di entrambi gli schieramenti. Il nuovo insegnamento analizzerebbe le caratteristiche delle principali confessioni religiose, i testi sacri anche in relazione alla loro influenza sulla tradizione culturale, le vicende storiche delle tre religioni monoteiste (con particolare attenzione al cristianesimo!), il fenomeno religioso in sé.
Questa ora di «Introduzione alle religioni» andrebbe ad affiancare l’ora di religione cattolica, comporterebbe la nascita di una nuova classe di insegnamento e, ovviamente, un piccolo aggravio per i conti pubblici. Parecchi osservatori hanno lamentato lo «scarso coraggio» di questa idea, che non espelle la religione cattolica e che anzi mira ad aumentare la confessionalità nella scuola pubblica e laica.
Proviamo a fare chiarezza. L’idea che il fenomeno religioso, o la storia delle religioni, sia privo di interesse per chi non è credente appare un po’ superficiale. Qualunque persona di cultura farebbe bene a conoscere princìpi e cardini dei vari culti, tanto più nel momento in cui questi sono sempre più professati da nostri vicini di casa o colleghi. E quindi ben venga questa nuova materia, purché i programmi siano elaborati seriamente dall’apposita commissione ministeriale.
Certo, la Melandri non prende di petto la questione dell’ora di religione cattolica – per convinzione o per realismo – che rimane un vulnus rispetto alla laicità dello stato. Ma il dibattito pubblico italiano è maturo per una riflessione di questo tipo? Ricordiamoci che a due anni dalla morte di Eluana Englaro non è stata ancora riaperta la discussione sul fine-vita. E poiché in politica l’ottimo è spesso nemico del buono, teniamoci la proposta-Melandri, sperando che possa essere approvata da un parlamento, quale che sia.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas
L’Unione informa, 14 dicembre 2010

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giovedì 9 dicembre 2010

Newsletter n.43/2010 - Ancora antisemitismo e omofobia: non sottovalutiamo

Il caso delle presunte esternazioni antisemite ed omofobe che un supplente di religione avrebbe pronunciato nel corso di una sua lezione nel Liceo Cairoli di Varese non presenta caratteristiche particolari rispetto ai numerosi già verificatisi nel firmamento scolastico. Così come la sua “assoluzione”, arrivata dopo un'indagine interna allo stesso istituto, che ha giudicato tali frasi dei semplici fraintendimenti, sigillando così la scontata conclusione della vicenda. La stampa locale ha infatti relegato la notizia a pagine interne, senza darvi particolar rilevo e senza alcun commento, con il consistente rischio che tali eventi cadano nella indifferenza generale: Frasi contro gli ebrei, prof sotto inchiesta al Classico (Prealpina, 12/11), Frasi antisemite al Classico: assolto il Prof (Prealpina, 19/11) [Tutti i titoli sono disponibili nella rassegna allegata e on line, ndr].
Al formale biasimo per lo specifico caso preferisco proporre elementi di riflessione iniziando dalla impropria procedura con la quale gli organi dirigenti degli istituti scolastici si arrogano il ruolo di inquirenti e giudicanti di palesi violazioni dell'articolo 3 della nostra Costituzione e della Legge Mancino.
Vorrei sottolineare in primo luogo che gli elementi necessari ad un sereno giudizio – per i rapporti degli insegnanti con i propri colleghi, per lo stato di sudditanza degli studenti nei confronti dei propri docenti e per il comprensibile interesse della scuola di comprimere il caso al proprio interno – non consentono di evidenziare la situazione nella sua reale dimensione.
Secondariamente i rapporti fra il dirigente di istituto e gli insegnanti di religione non sono diretti in quanto questi ultimi sono nominati dalle Curie e non dai Provveditorati,come avviene per gli altri docenti. Da ciò consegue che l’IRC, insegnamento della religione cattolica, viene affidato inevitabilmente ad insegnanti di diretta nomina ed esterni. In questo modo si esclude la possibilità di attivare la materia di Storia delle religioni, interna a paritaria nel sistema scolastico, che potrebbe attribuire pari opportunità di accesso all’insegnamento a rabbini, pastori valdesi (o protestanti) e imam. Questo stato di cose è in evidente contraddizione con il principio di laicità dello Stato e delle sue istituzioni, sancito dalla Costituzione.

Fabio Norsa

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martedì 30 novembre 2010

Newsletter n.42/2010

Le donne in piazza contro violenza e discriminazioni (Gazzetta di Mantova, 26/11): la Giornata contro la violenza e le forme di discriminazione verso le donne ha avuto successo di pubblico per gli eventi organizzati; molte sono le lettere comparse sulla stampa: Un piano nazionale in difesa delle donne, di Telefono Rosa (Gazzetta di Mantova, 25/11), Serve la cultura del rispetto del Club Unesco (Gazzetta di Mantova, 25/11), Visione in “3d”: donne, democrazia e diritti, di 194ragioni Mantova (Voce di Mantova, 29/11).

Spazio. È di questo che le minoranze hanno bisogno da parte della stampa. Bella la pagina dedicata ad una storia: Io sono Marjus, così ho costruito le radici italiane (Gazzetta di Mantova, 29/11). Titolo a parte, che farebbe pensare alla omologazione piuttosto che all’integrazione (o, meglio ancora, interazione), leggiamo che Marjus, arrivato dall’Albania, ha deciso di frequentare il liceo classico, anche se gli insegnanti delle medie spingevano per un istituto professionale, e intende iscriversi a giurisprudenza. Ama l’Italia, ma vorrebbe viaggiare: “Se ho assorbito due culture, perché non tre?”.
Incomprensibile il motivo che ha portato un giornale a titolare in prima pagina “Emergenza studenti stranieri”, quando essa non solo non esiste, ma neppure viene poi ripresa nell’articolo interno: Studenti suzzaresi: uno su tre è straniero (Voce di Mantova, 27/11).

Ritirati i contenuti discriminatori della delibera comunale di Ceresara: Bonus bebè anche per gli stranieri (Gazzetta di Mantova, 27/11). Bene, anche se c’è un problema: potranno beneficiare del contributo solo i bambini e le bambine nati all’interno del matrimonio, tutti gli altri non sono benvenuti.
Mantova si è aggiunta alla fila delle città super regolamentate nei comportamenti urbani.
All’Osservatorio preme evidenziare le dichiarazioni di uno dei partiti di maggioranza: Regolamento di Polizia urbana. De Marchi: volevamo di più (Gazzetta di Mantova, 25/11). Il capogruppo leghista si riferisce al fatto che gran parte delle sue richieste non sono state accolte, probabilmente perché ritenute ai limiti di legge, visto che intendevano limitare esplicitamente ed esclusivamente le attività dei cosiddetti ‘negozi etnici’.
(continua..)

Angelica Bertellini

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martedì 23 novembre 2010

Newsletter n.41/2010 - Ancora sotto la gru

"LA LORO LOTTA DI OGGI E' LA NOSTRA LIBERTA' DI DOMANI"

Un’energia combattiva, coraggiosa, rumorosa e anche allegra ha attraversato Mantova sabato pomeriggio; eravamo tante e tanti, anche se non tantissimi, alla manifestazione per il permesso di soggiorno agli immigrati e alle immigrate che vivono e lavorano in Italia. C’era la consapevolezza di partecipare a qualcosa di nuovo: una lotta per smascherare leggi ingiuste e discriminatorie, per denunciare l’invisibilità a cui sono costretti dall’invenzione del reato di clandestinità decine di uomini e donne: non delinquono, lavorano, o vorrebbero lavorare, ma non sono riusciti a passare attraverso le maglie assurde e insensate della sanatoria 2009. Una manifestazione anche contro le frodi e gli abusi degli spacciatori di falsi permessi di soggiorno.

LA LORO LOTTA
Non ci sono oratori ufficiali, anche gli organizzatori sono soggetti nuovi: Il Coordinamento migranti Basso Mantovano e il Comitato 1° marzo di Mantova. Un robusto sostegno all’organizzazione è venuto dai giovani dei gruppi della sinistra radicale. Ma i ragazzi e le ragazze che guidano il corteo probabilmente non sono nati in Italia anche se, in perfetto italiano, scandiscono a ritmo di rap slogan inventati per l’occasione come “Basta truffe”, “Basta pagare”, “Siamo tutti nipoti di Mubarak” e lo ‘storico’ “Lotta dura, senza paura”. La paura di mostrarsi in prima linea per molti giovani migranti forse c’è ed è del tutto comprensibile. Lo ricorda Chaimaa Fatihi, studentessa, giovanissima attivista per i diritti degli immigrati : “Se i ragazzi che sono stati sulla gru a Brescia e quelli di Milano hanno deciso forme di lotta così radicali, è perché si sono sentiti presi in giro dal governo e dagli speculatori: la loro lotta di oggi è la nostra libertà di domani. Noi, giovani di seconda generazione, che ancora non abbiamo cittadinanza né diritto di voto, non è detto che domani non ci troviamo nella loro situazione”.
Chaimaa e gli altri esprimono rabbia, speranza, paura, consapevolezza con forme di lotta radicali e civili insieme. Le discriminazioni, le truffe, i diritti negati, il razzismo che troppo spesso incontrano non sono riusciti ancora a creare un antagonismo insanabile con la società in cui vivono: espongono se stessi a rischi, magari, ma esprimono una fortissima volontà di far capire le proprie ragioni, di essere parte attiva – e critica – della società che oggi li respinge; si inseriscono con intelligenza creativa nelle nostre migliori tradizioni di lotta. Non possono essere lasciati soli.

LA MEMORIA DI MARINO E LO SDEGNO DI ANWARA
La manifestazione procede rumorosa, gonfiandosi mentre scorre per le strade di una città che, tranne sporadici banchetti di raccolta firme e qualche discreto presidio, il sabato pomeriggio sembrava conoscere soprattutto shopping, movida e happy hour. Tra canzoni e slogan si riesce a discutere.
Entra nel corteo anche Marino, decenni di lavoro da emigrato in Svizzera, una solida coscienza dei diritti dei lavoratori, l’amarezza di vivere in un Paese immemore delle migliori tradizioni della lotta politica: “Nemmeno in Svizzera gli immigrati venivano trattati come oggi in Italia”, dice. “Certo, se tentavi il ricongiungimento, i figli dovevi nasconderli in casa, e se facevi attività politica ‘sovversiva’ rischiavi l’espulsione immediata”. E lui, che all’impegno politico non ha rinunciato nemmeno in quelle condizioni, alla manifestazione di sabato non poteva mancare. Fra i partecipanti al corteo si intrecciano storie; si ragiona sulla necessità, d’ora in poi, di imparare a far politica insieme, nativi e migranti; ci si compiace della mescolanza di generazioni. Davanti alla Questura, prima di lasciarci, dopo quasi tre ore di manifestazione, ascoltiamo l’intervento appassionato di Anwara, giovane studentessa bengalese che di getto, con voce così ferma da far fremere, rivolge agli italiani un appello forte: “Io pago le tasse e pago anche per il permesso di soggiorno, mi comporto bene, non commetto reati io; allora perché non ho gli stessi diritti degli italiani? Tutti sapete, anche gli italiani lo sanno, che nelle nostre famiglie ci sono persone che hanno pagato, oltre ai 500 euro della sanatoria, otto, dieci mila euro per non avere il permesso di soggiorno: chi glieli restituisce adesso? Perché truffate questi clandestini, questi stranieri? Siamo poveri, veniamo da paesi dove c’è la guerra, la fame, dove non c’è lavoro”. Mentre invita altri ragazzi a intervenire, senza avere paura, il corteo intona con più forza “Basta truffa! Basta pagare!”.

E NOI?
Lo stesso giorno, ancora una volta, la Gazzetta di Mantova annunciava in prima pagina Falsi permessi per badanti, tre in carcere. Chiedevano 4000 euro a straniero. Verifica su duecento immigrati. Un’intera pagina, la 15, racconta una vicenda simile a quelle che anche nelle settimane scorse anche noi abbiamo denunciato: “Il trucco consisteva nel far credere alla prefettura che ci fossero delle famiglie mantovane che avessero assunto alcuni egiziani come badanti […] un modo per far avere il permesso di soggiorno a chi era disposto a pagare fino a 4 mila euro per questo (più altri 500 all’Inps perché questo prevedeva la sanatoria)”. Ma le lungaggini burocratiche hanno sfinito gli egiziani in attesa dei finti permessi: si sono rivolti alla questura di Mantova e hanno raccontato tutto. Sono finiti in manette due italiani e un egiziano che faceva da tramite. A questo si aggiunge Sanatoria badanti, affare per tutti su Voce di Mantova il 24 novembre: arrestate quattro persone, due italiane, 4mila gli euro pagati per ogni permesso. La rassegna dei quotidiani lombardi che ci fornisce Data Stampa riporta, dall’inizio dell’anno, almeno 16 articoli che denunciano episodi di questo genere; si riferiscono quasi esclusivamente a Mantova e a Brescia: non a caso il Procuratore capo di Mantova, Antonino Condorelli, ha parlato delle truffe ai danni di immigrati come di un “dramma quotidiano”. Pensando a questa squallida “banalità del male”, ascoltando le dure parole di Anwara, quelli che erano in piazza sabato si chiedevano con un filo di malessere: “Ma gli altri dove sono?”. I ‘nostri’ altri, intendevamo; quelli che manifestando non rischiano nulla.

Maria Bacchi

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martedì 16 novembre 2010

Newsletter n.40/2010 - XII Giornata internazionale contro la transfobia

Singolare la sorte di Brenda trovata morta proprio il 20 novembre 2009, giorno in cui ricorreva l’undicesimo Transgender Day of Remembrance, ovvero la giornata istituita dalla comunità LGBT e volta alla commemorazione delle vittime dell'odio e del pregiudizio anti-transgender (transfobia).
Brenda, ricorderete, fu una delle persone transessuali coinvolte nel caso Marrazzo e il cui corpo fu rinvenuto esanime nel proprio appartamento. Ciò che da essere umano mi indigna è la mancanza di rispetto e sensibilità che i media (giornali, tv, radio e web) spesso rivolgono a persone come lei, persone che per trovare un equilibrio interiore hanno l’assoluta ed irrinunciabile esigenza di adeguare il proprio corpo alla propria anima. Provate ad immaginare come sarebbe stata la vostra vita se vi foste sentite donna e foste invece nate in un corpo maschile, oppure al contrario se foste sentiti uomo e foste invece nati con genitali femminili. Divertente? Non credo. Non sono né devianze né malattie psichiatriche. Oramai, dopo decenni di sofferenze inflitte, la comunità scientifica mondiale ha compreso che l’unica via percorribile è adeguare il corpo al “sentire dell’anima”.
Vladimir Luxuria, prima persona transgender a sedere sui banchi della Camera dei Deputati, il 21 novembre 2007 in un proprio intervento in aula per ricordare le persone transessuali vittime dei crimini d’odio diceva: “…faccio appello alla sensibilità di tutte le deputate e i deputati che hanno una reazione di orrore e condanna verso la violenza perché non esiste una classifica di dignità delle vittime…”. Poi: “…occorre contrastare anche chi incita all’odio e alla violenza armando la mano di altri con un disprezzo che a volte diventa complice”. Venendo ai giorni nostri, l’infelice esternazione di qualche giorno fa del nostro capo di governo: “meglio bla.. bla.. che essere gay” legittima pregiudizio ed intolleranza. Onestamente è grave (ma veramente grave!) che un primo ministro si permetta di disonorare la vita e la dignità di milioni di cittadini per scrollarsi di dosso imbarazzanti accuse oppure, strategicamente e subdolamente, per dare inizio ad una nuova campagna elettorale. Ricordo al Sig. Berlusconi che esiste una direttiva approvata dal parlamento europeo il 26 aprile 2007 che – riprendendo l’art. 13 del trattato di Amsterdam, disatteso dall’Italia – ribadisce l’invito agli stati membri “a proporre leggi che superino le discriminazioni subite da coppie dello stesso sesso”, e che condanna “i commenti discriminatori formulati da dirigenti politici e religiosi nei confronti degli omosessuali”. Stiamo a vedere se, almeno l’Europa, prenderà provvedimenti contro questa gravissima affermazione. Di certo da persone gay, lesbiche e transessuali quali siamo non permetteremo a nessuno (nemmeno al capo del governo) di mancarci di rispetto senza far sentire la nostra voce; non abbiamo scelto di essere omosessuali o transessuali, abbiamo scelto - e continuiamo a scegliere - di non abbassare più lo sguardo.

Raffaele Calciolari - Ufficio Stampa Arcigay La Salamandra

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martedì 9 novembre 2010

Newsletter n.39/2010 - La dignità non ammette silenzio

NON SALTERA' IL MONDO
"Indaghiamo sulla vita privata dei grandi
uomini: la vicinanza di un essere
umano considerato inferiore a mente
fredda, ha colmato i gesti più comuni di
una aberrazione a cui nessuno si è
sottratto."
Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel, 1970
La citazione non dia luogo a fraintendimenti.
I “grandi uomini” che Carla Lonzi aveva in mente – ne sono certa – non sono quegli esempi di rettitudine e saggezza cui a buon diritto spetterebbe questa etichetta, ma coloro che amano ritenersi tali, quei figuranti senza qualità che la vulgata popolare, il sistema mediatico, la cultura mainstream definiscono come tali, in virtù di qualche loro potere: politico, finanziario, televisivo…
Ecco perché il personaggio, contro la cui vigliaccheria siamo qui oggi ad esprimere la nostra esasperazione, rientra a pieno titolo nella categoria dei “grandi uomini” di Carla Lonzi.

L’ultima esternazione, che ha splendidamente coronato l’esplosione del Ruby-gate, non è più indecente di tante altre precedenti e dello stile di vita e di pensiero di cui è simbolo; un sistema culturale e valoriale che ruota intorno alla “vicinanza di esseri umani considerati inferiori a mente fredda”.
Quando si accendono le luci nel privé, quando gli ospiti all’alba lasciano la villa, quando sul palco della lap-dance non ci sono più le ballerine ma qualcuno che fa le pulizie, quando le bottiglie sono ormai vuote, i regali distribuiti e la musica terminata – quando, cioè, il teatrino si smonta – i “grandi uomini”, “a mente fredda”, guardano le starlette di turno, che fino a quel momento si sono illusi di corteggiare e di vincere, le danzatrici da harem, le Lolita… e non vedono persone come loro, ma quelle che secondo loro sono “le donne”: escort, “carne fresca” da comprare – ossia quegli “esseri inferiori” che permettono loro, ogni giorno, di immaginarsi “superiori” e di costruire il loro potere.

E proprio in questo sta – mi sembra – il nodo profondo del berlusconi-pensiero e dell’appeal che esso riscuote presso tanta italianità.
È il fascino della “grandezza” a portata di mano, del potere da outlet: quello che non richiede preparazione, intelligenza, studio, saggezza, rettitudine e qualità superiori alla media, ma si fonda unicamente sull’arroganza – basta circondarsi di un serraglio di “esseri inferiori”, perché ci si possa percepire “grandi”, e si possa indurre altri a considerarci tali.
Che cosa sono, infatti, machismo e maschilismo, se non strutture che il maschio eterosessuale ha inventato a suo uso e consumo, al fine di definirsi come “superiore”, e dunque in diritto di detenere il potere?

Allora, le smargiassate di un maschio sono gravi e preoccupanti non solo nel loro eventuale violare la legge e offendere ogni umano buon senso, ma anche – e forse più – perché egli, per il ruolo istituzionale che ricopre e per la visibilità di cui gode, strizza l’occhio alla parte peggiore di certa Italia da commedia anni ’60, solletica nostalgie di patriarcato evidentemente mai sopite, sdogana sentimenti, immaginari, termini e retoriche la cui indegnità credevamo assodata.
Sono preoccupanti, cioè, perché non sono i segnali della malattia di un uomo solo, ma di quella di una bella fetta di Italia.
Quella fetta di Italia che, alla sua uscita soddisfatta da vero conquistador, ridacchia e applaude, evidentemente riconoscendo parte di sé e del proprio credo in quelle parole.

Che questo mix di arroganza e violenza – di cui machismo e maschilismo sono alcune declinazioni – trovi un terreno fertile in cui radicarsi è sintomatico di un processo di regressione pericoloso.
Non solo quello che, ovviamente, investe il campo dei diritti civili e umani in Italia, che ad ogni uscita di questo tipo fanno un passo indietro di qualche anno; e non solo quello dell’autorevolezza dei nostri rappresentanti – nella quale già da tempo abbiamo smesso di sperare.
La recessione più pericolosa, forse, è quella dello stato di salute mentale del nostro Paese, che in troppi casi pare aver perso la capacità di discernere e quella di indignarsi, e che – impaurito, impoverito, inetto – sembra aver barattato la propria dignità con la scorciatoia dell’arroganza verso i più deboli, dell’umiliazione dei possibili avversari, della furbizia truffaldina e dell’ignoranza smargiassa.

È così che al dialogo viene sostituita l’offesa, che la barzelletta da osteria prende il posto dell’approfondimento, e la sopraffazione quello della collaborazione.
Non mi meraviglia che le donne, così come gli omosessuali, siano le prime categorie di persone ad essere prese di mira da questo sistema distorto di pensiero: perché esso è maschio – maschio eterosessuale – e non ha i mezzi per instaurare un confronto alla pari, non ha l’intelligenza e la consapevolezza necessarie a misurarsi su un piano di civiltà, dunque ricorre alla barbarie, consentitagli dal suo essere “maggioranza” o dal ritenersi tale.
La sottomissione – fisica o simbolica che sia – è l’unico strumento che conosce, quello che lo definisce e garantisce il suo equilibrio.

Quello che dovremmo tenere a mente ed insegnare alle altre, e la risposta più ironica che possiamo dare all’arroganza machista e maschilista – la risposta che colpirà più a fondo, perché mette a nudo il sentimento di paura e l’inadeguatezza che la originano – è, ancora, una frase di Carla Lonzi, tratta dal Manifesto di Rivolta Femminile, datata 1970 eppure (ahinoi) tremendamente attuale:

“Non salterà il mondo se l’uomo non avrà più l’equilibrio psicologico basato sulla nostra sottomissione”.

Elena Borghi

***
Una nota a margine, di una donna:

Io, per quanto possa contare, non voglio l’ammirazione, né tantomeno la presunta passione, di un uomo che, per portare il suo sguardo a me, ha attraversato, trafiggendola, la dignità di milioni di persone. Anzi, di più: io non glielo permetto. Perché io desidero e accolgo lo sguardo degli uomini che misurano la loro grandezza con la conoscenza, col rispetto, con il metro dell’uguaglianza attento alla ‘differenza’, con l’intelligenza di cuore. Sono circondata da questi sguardi: quelli dei miei amici, dei miei colleghi.
Uomini che non incasellano per gruppi umani, né ritengono che questi gruppi siano collocabili su una scala valoriale. Sono uomini che non ragionano per categorie, dall’alto della loro; sono uomini che mi stanno di fronte, i veri “grandi uomini” del quotidiano.
I loro, infatti, sono sguardi che arrivano dritti al mio, che non hanno bisogno di attraversare nulla, perché incrociano il mio sguardo.

Angelica Bertellini

Questo il contributo dell’Osservatorio alla manifestazione “La dignità non ammette silenzio” organizzata sabato 7 novembre da Arcigay La Salamandra di Mantova.

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martedì 2 novembre 2010

Newsletter n.38/2010 - Il coraggio di dire: basta!

Silvio Berlusconi: “E' meglio essere appassionato di belle ragazze che gay”, questa è l’ultima volgarità che infiamma il dibattito in Italia. Alcune settimane fa Bossi ha chiamato “porci” i romani, il Senatore Ciarrapico si è chiesto se Fini abbia già ordinato la kippah (il copricapo ebraico), mentre il Ministro Maroni ha affermato “niente casa ai Rom” e mi fermo perché devo dire che non è certo facile star dietro al dibattito "culturale" nel centrodestra italiano.
L’uscita del Presidente del Consiglio colpisce in volgarità sia le donne che i gay. Le donne perché un uomo può essere appassionato di orologi o di musica ma non certo di una parte di umanità, come se questa fosse un oggetto da collezione. I gay perché si stigmatizza e si equipara l’omosessualità al negativo: è male esserlo.
Il messaggio del Presidente Berlusconi al Paese è devastante e rischia di svilire il lavoro svolto in questi due anni dalla Ministra Carfagna, che con convinzione si è spesa per combattere l’omofobia ma anche le violenze e le discriminazioni che colpiscono, guarda caso, sempre di più le donne.
Confesso che tutto questo scempio non lo trovo né divertente e neppure un innocuo esercizio di folklore. Qualcuno dirà che certa gente ha sempre pensato queste cose ma non ha mai trovato il coraggio di dirle. Ed è per questo domando: chi gliel’ha dato questo coraggio? Noi! Troppe volte in questi anni abbiamo girato la testa di fronte a tale scempio dei valori con i quali siamo cresciuti. Vi prego di riflettere se non sia giunto il momento di smetterla di girare la testa e avere il coraggio di dire: basta!

Carlo Berini

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martedì 26 ottobre 2010

Newsletter n.37/2010 - Libri contro l'antisemitismo

Un pacco di libri (involucro blu, fiocco bianco), una lunga chiacchierata e una stretta di mano. Così se l’è cavata Luca I., 19 anni, autore di una “bravata” che poteva avere delle conseguenze molto più serie di quelle che il giovane avrebbe mai potuto immaginare, quando nella primavera scorsa aveva urlato “ebrei di m…” all’indirizzo di alcuni passanti che, kippot in testa, si dirigevano verso la propria sinagoga. Scattata la denuncia grazie al numero di targa, Luca si è trovato coinvolto in un procedimento penale. Così ha presentato in Procura una lettera di scuse indirizzata alla Comunità ebraica, in cui ha raccontato il suo pentimento e la sua vergogna per un gesto stupido e superficiale. Scuse accettate dal presidente della Comunità Roberto Jarach, ma a una condizione.
Non il risarcimento in denaro previsto in casi analoghi, ma la ricerca della conoscenza, principio cardine dell’ebraismo. Dunque chiuso il procedimento penale senza conseguenze, Luca si è recato in Comunità insieme al suo avvocato Giambattista Colombo, e ha ascoltato con attenzione le parole di Jarach, per cominciare ad apprendere quello che prima ignorava sul popolo ebraico e
sull’antisemitismo. “Devi capire che noi siamo costretti a fronteggiare molti episodi di antisemitismo, non solo casi isolati purtroppo, ma anche iniziative organizzate – ha spiegato il presidente –. Non è una questione di ipersensibilità, il popolo ebraico nella storia ha trovato troppe volte porte chiuse e stereotipi insormontabili sulla strada della propria aspirazione all’uguaglianza. Siamo persone assolutamente normali, e ognuno di noi ha pregi e difetti propri. Perché nel momento stesso in cui identifichi un gruppo attribuendogli delle caratteristiche unitarie, allora formuli un pensiero razzista”.
“Sono davvero dispiaciuto di quello che ho fatto, e più di tutto mi vergogno per la mia ignoranza” ha ribadito il diciannovenne. Proprio all’ignoranza, sulla scia della grande importanza data alla cultura nella tradizione ebraica, il presidente Jarach tiene a dare rimedio. “Una cosa ti auguro ora che questa vicenda si conclude: che tu possa diventare uno studioso, non solo di ebraismo e antisemitismo, ma dei problemi delle minoranze e del razzismo in generale, perché è ciò di cui il nostro paese più ha bisogno”. E sicuramente un buon punto di partenza sarà quel pacco blu che dalla scrivania è passato nelle mani di Luca. Quattro volumi appositamente selezionati per lui: L’ebraismo spiegato ai miei amici di Philippe Haddad, Ebrei in Italia 1870 -1938 di Maurizio Molinari, Ebrei in Italia tra persecuzione fascista e reintegrazione post bellica di Ilaria Pavan e Guri Schwarz, tutti pubblicati dalla Giuntina, e Breve storia degli ebrei e dell’antisemitismo di Eugenio Saracini, edito da Mondadori. La scelta di rispondere con quattro libri al più ripetuto ritornello antisemita si inquadra nel dibattito che si è sviluppato sulla stampa ebraica e nazionale a proposito dell’opportunità di introdurre una legge che punisca penalmente il negazionismo. Ipotesi commentata dal presidente della Comunità di Milano a margine dell’incontro con Luca. “Non penso che lo strumento migliore per combattere il negazionismo possa essere l’intervento legislativo. Secondo la mia visione delle cose, una legge del genere non farebbe che fornire pretesti per contro-attacchi in nome di una pretesa libertà di espressione – ha spiegato Jarach –. Il mio auspicio è invece che le istituzioni si impegnino per arginare le situazioni patologiche prima ancora che si verifichino in concreto. Su questo non dobbiamo transigere. Le università, gli enti pubblici non possono accettare di patrocinare gente come Moffa. Penso che il nostro paese e la nostra società siano assolutamente in grado di sviluppare questi anticorpi senza ricorrere a una legge”.

Rossella Tercatin
L’Unione informa del 22 ottobre 2010

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martedì 19 ottobre 2010

Newsletter n.36/2010 - Cronache da Adro: sei persone senza autore

Jafrani, Hutaf, Maghri, donne magrebine, Sofia pakistana, Awa e Omar, entrambi senegalesi: sei persone fiere e coraggiose che hanno molto in comune tra di loro. Soprattutto molte sfortune: quelle di essere poveri, di avere dovuto lasciare, spesso fuggendo, il proprio paese e di avere comunque messo al mondo almeno tre figli. Ma, principalmente, la sventura maggiore sembra essere quella di abitare ad Adro, Franciacorta, provincia di Brescia. Un luogo dal punto di vista urbanistico e naturale molto bello, sito nel cuore di una delle zone più ricche e produttive, in senso agricolo e industriale, del mondo. Quella bagnata dai fiumi lombardi, a cavallo tra le terre bresciane e quelle bergamasche.
Una delle zone, però, dove la povertà e l’indigenza sono considerate di per sé una colpa grave, una inadeguatezza da nascondere. Più che per vergogna, proprio per senso di pulizia. E quindi, quando queste caratteristiche negative sono non autoctone e non celabili sotto il tappeto di casa, quando sono proprie cioè di abitanti nuovi, deboli di diritti e che vengono da lontano, sono viste come problemi gravi, gravissimi, al limite del debordare nei problemi di sicurezza.
La giunta comunale di questo paese, però, pare stia sperimentando un sistema nuovo, diverso, che trasforma, attraverso una non nascosta ‘inospitalità’, il fenomeno dell’indigenza immigratoria in una macchia tutto sommato lavabile. Essa, forte di un appoggio popolare molto consistente e in costante aumento, ha infatti deciso, in modo trasparente e deliberato, di rendere praticamente impossibile la vita a questi ‘ospiti’ molto poco desiderati.
Ogni Comune, si sa, è dotato di un servizio di assistenza sociale che ha, ovviamente, il compito di
occuparsi di situazioni, singole o famigliari, di disagio dei residenti: vuoi per motivi economici, vuoi per motivi di salute, per anzianità o per troppa esposizione. Adro ha già tentato una volta di escludere da questi molto relativi, ma comunque concreti, benefici (come il contributo economico per l’affitto) i residenti ‘non provenienti dalla comunità europea’, con l’evidente già citato tentativo di rendere il proprio territorio comunale poco attraente nei confronti degli extracomunitari. Ma era stato stoppato da un esposto della locale CGIL che ha, nel giugno di quest’anno, convinto il giudice ad obbligare il sindaco Lancini a togliere dal bando le clausole discriminatorie e a procrastinare i termini dello stesso.
Ora, la storia si ripete in modo ancora più eclatante e odioso: un gruppo di sei Comuni della zona, il più grosso dei quali è Palazzolo sull’Oglio e di cui fa parte anche Adro – tutti retti tra l’altro da giunte che comprendono la Lega – ha ricevuto dalla Regione una somma da trasformare in voucher a favore di famiglie indigenti e con almeno tre figli a carico. Basso reddito e stato di famiglia ricco: non è necessario avere studiato sociologia per poter individuare soprattutto nei nuclei extracomunitari i destinatari dell’iniziativa. Cosa fa il Comune in questione, a differenza degli altri cinque? Non aderisce, adducendo come motivazione il fatto di non avere più fondi per integrare, come da prassi, quelli regionali. Ragione che non può che apparire pretestuosa oltre che in contraddizione con altre, onerose, iniziative municipali. Ma tant’è. Il Sindaco, in questo caso, non deve neppure ricorrere a ragioni risibili come quelle legate alla presunta tradizione locale dei simboli ‘leghisti’ usati con ossessiva profusione nell’ormai famoso complesso scolastico: egli sa di avere la stragrande maggioranza della popolazione di Adro, Franciacorta, d’accordo con lui. Sembra di sentire, perfino, le sue parole con l’inconfondibile cadenza alla Castelli o alla Calderoli: “Noi non abbiamo soldi per questa gente. E se non gli sta bene stare qui, vadano pure da un’altra parte: a Capriolo o a Erbusco, per esempio, dove hanno evidentemente soldi da dargli. Noi, di certo, se vogliono andare non li rincorreremo”.
Mercoledì scorso, sei persone fiere e coraggiose, cinque madri e un padre, sei personaggi senza autore, hanno comunque presentato regolare domanda in comune ad Adro per ottenere quel misero aiuto, quella dignitosa banconota povera di potere d’acquisto, ma ricca di diritto. L’hanno presentata a vuoto, non essendoci in municipio il bando e nemmeno i modelli relativi; l’hanno presentata a perdere, in questo paese pilota per ‘essere padroni in casa nostra’, in questo luogo ricco e pulito, cattolico al punto da cementare i crocifissi alle pareti delle aule scolastiche, tradizionale al punto da mettere la carne di maiale, sempre!, nella mensa dei bambini. Tanto per vedere l’effetto che fa….
L’impressione è insomma che dietro l’abbaglio del sole delle alpi si consumino tante normali ingiustizie e discriminazioni, mute e quotidiane.

Giuseppe Raspanti

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martedì 12 ottobre 2010

Newsletter n.35/2010 - Rifiuti

Li conoscono tutti come i 'giardini di Viola', per via della storica gelateria che si trova all'angolo con via delle Pescherie, davanti al campanile solitario di san Domenico. O anche delle 'badanti', perché al sabato pomeriggio o alla domenica, le panchine dell'area verde che fiancheggia la passeggiata lungo il Rio diventano luogo di ritrovo delle donne venute in Italia da paesi come Ucraina e Moldavia per trovare lavoro come assistenti per gli anziani.
Anche ieri pomeriggio erano lì, con i loro sacchettini dei supermercati usati all'occorrenza anche per riporre i resti dei pasti consumati all'aperto nelle giornate di sole. Ieri mattina era tutto pulito. Nel pomeriggio c'erano in giro diverse cartacce, soprattutto sul retro del campanile. [...] Ma Chizzini non si ferma qui. «Il problema è che le panchine vengono usate come luogo di bivacco - argomenta - è una questione di maleducazione. I regolamenti comunali vanno rispettati: chi sporca andrebbe sanzionato»

Lungorio, cartacce e rifiuti nelle aiuole dove crescono le rose
(Gazzetta di Mantova, 11 ottobre 2010)

Sabato scorso, anch’io guarda caso ho pensato ai rifiuti sul Lungorio, durante il mercato dei contadini, quando tutta Mantova vi si riversa per comprare cibi genuini, frutta e verdura fresca, formaggi locali e carne biologica.
Ho pensato, vedendo le carte e i rifiuti per terra, “chissà se anche queste cartacce, questi volantini pubblicitari, residui di ortaggi, saranno addebitati alle persone che più frequentano questi giardini, cioè le donne che assistono persone anziane o disabili, che il sabato pomeriggio o la domenica hanno delle ore libere da trascorrere fuori dal posto di lavoro, che è anche la loro unica abitazione, dove perciò è meglio non rimanere, altrimenti sarebbe come per me restare a dormire in ufficio”.
Ovviamente sono loro le prime sospettate di qualunque cosa riguardi i giardini, qualunque cosa ma di spiacevole, beninteso… Se dovesse succedere un miracolo, sicuramente sarà accreditato ad altri.
I rifiuti dei “Giardini di Viola”: annoso problema; i giardini stessi sono un annoso problema per i mantovani. Qualcuno dice addirittura che ha paura ad attraversali, infestati come sono di gente straniera e perciò pericolosa. Qualcun altro si chiede a che servono queste graziose coperture fiorite tra le panchine se poi a bivaccarci sopra vanno solo le badanti. Ovviamente spreco di denaro pubblico. Anzi, anche i “Giardini di Viola” sono uno spreco di spazio cittadino. Spazio che ormai ospita solo rifiuti di vario genere, gastronomico, pubblicitario, umano. Rifiuti umani… Rimango sempre più impietrita da quanto leggo e sento. Penso che dovrei lasciarmi attraversare da orecchio a orecchio e dimenticarmene. Ma perché poi? Per pensare a cos’altro? Dovrei non sentire, non vedere, non pensare.
I rifiuti di cui, sulla Gazzetta di ieri, parlava l’assessore (di cui il giornalista puntualizza l’appartenenza politica – e questa può essere una chiave di lettura) io li ho visti, li ho visti sabato, e sono stati lasciati lì da noi benestanti clienti del fiorente mercato contadino. Le “badanti” badano bene a non alimentare gli spiacevoli luoghi comuni che le investono, che le travolgono, che le uccidono nell’anima, dopo che già, talvolta, sono state uccise nella dignità dai loro “padroni” a causa delle richieste assurde di cui spesso sono destinatarie e alle quali devono comunque dare una risposta. Perché se perdono il lavoro, perdono l’identità. Cioè tutto.

Lucia Papaleo

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martedì 5 ottobre 2010

Newsletter n.34/2010 - Omofobia e lodevoli intenzioni

Nella sera di domenica 19 settembre alla festa della birra di Pignataro, in provincia di Frosinone, una coppia gay italo-inglese è stata avvicinata da un gruppo di uomini e selvaggiamente picchiata perché si stava baciando. Esattamente tre giorni dopo a Ragusa un altro caso di omofobia, l'ennesimo...: un giovane gay viene vessato e umiliato dal branco con un secchio di urina. E' con questa frequenza e questa rabbia che la violenza omofoba si riproduce, propagando i suoi tentacoli dal nord al sud del Paese. E mentre le associazioni omosessuali da tempo gridano all'emergenza nazionale, in Italia nessuna norma, ad oggi, è prevista nell'ordinamento a tutela delle persone gay, lesbiche, bisessuali e transessuali. A distanza di quasi un anno ormai dall'affossamento della proposta di legge presentata dall' on. Concia, il dibattito politico su questo tema stenta a riaccendersi, nonostante due nuove proposte siano in discussione alla Camera proprio in queste settimane. Il timore di urtare la sensibilità delle gerarchie vaticane, e il veto dichiarato della Lega, che vede in un provvedimento a contrasto dell'omofobia e la transfobia il tentativo di “piantare una bandierina” per far tornare un domani alla ribalta altre questioni come il riconoscimento delle coppie di fatto, rischiano di trasformare un atto di civiltà in un'impresa titanica. E di questa condotta irresponsabile continueranno a pagare il prezzo persone innocenti e incapaci di comprendere le ragioni di tanto odio. Davvero paradossale se si pensa a quante energie siano state investite per dare attuazione a un dispositivo discutibile e controverso come il “pacchetto sicurezza”. Davanti a questo bieco ostracismo il nostro impegno e la nostra determinazione si fanno ancora più risoluti per dar voce al bisogno di giustizia che gran parte della società civile reclama. Un bisogno che sarà appagato solo quando il legislatore sarà in grado di offrire un apparato sanzionatorio idoneo ed efficace. L'unico strumento normativo davvero capace di racchiudere in sé queste caratteristiche oggi, è l'estensione della legge Mancino ai reati di omofobia e transfobia.
Se sul piano nazionale la partita è ancora tutta da giocare, a livello locale si colgono dei segnali di apertura che lasciano intravedere qualche nuovo spiraglio. Il 27 maggio scorso il Consiglio Comunale di Mantova ha approvato una delibera di adesione alla Giornata Mondiale per la Lotta all'Omofobia (17 maggio), un gesto che fa onore alla neo-insediata amministrazione capitanata dal Sindaco Sodano. Nel documento si dà inoltre mandato alla Giunta di “promuovere, anche in coordinamento con le associazioni e gli organismi operanti nel settore, iniziative volte a sensibilizzare l'opinione pubblica a una cultura delle differenze e a una condanna della mentalità omofobica, intervenendo, in collaborazione con gli organismi istituzionali di competenza, anche e soprattutto nelle scuole che hanno il dovere di formare i giovani perché contribuiscano a costruire un mondo rispettoso dei diritti di ciascuno...”. Queste sono le premesse, ci aspettiamo ora che alle lodevoli intenzioni seguano i fatti, nel dar concreto sostegno a progetti che vadano nella direzione auspicata, anche e soprattutto attraverso un lavoro sinergico con un'associazione, la nostra, da sei anni in prima linea su questo fronte, perché c'è un bisogno immenso di sporcarsi le mani per fare di Mantova, più di quanto non sia oggi, una città accogliente, inclusiva, rispettosa delle reciproche differenze.

Davide Provenzano
Presidente Arcigay “La Salamandra”

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martedì 28 settembre 2010

Newsletter n.33/2010 - Adro: una lettera

Signor direttore,
le scrivo per ringraziare le tante, tantissime persone che sabato sono venute ad Adro per protestare contro un sindaco che, con la scuola pubblica, si comporta come fosse una sua proprietà. Peccato per la pioggia: le tante bandiere italiane non hanno potuto sventolare nel sole, proprio perché pioveva; ma sono state un bellissimo spettacolo: mi sono sentita rincuorata e, anche se ho osservato il tutto solo dalla finestra, ho pianto di gioia.
Le assicuro che se nel corteo avessi visto sfilare persone di Adro che conosco, sarei scesa anch'io.
Ma capisco i miei compaesani: come me sono stati condizionati dalla paura di essere all'indomani indicati a dito da altri come traditori. Perché, vede signor direttore, qui ad Adro viviamo come in un paese assediato: sospettiamo l'uno dell'altro; abbiamo paura a dire quello che pensiamo perché sentiamo di non sentirci liberi.
E' come se vivessimo in un periodo di cui ho letto sul libro di storia; cioè come se sentissimo il dovere di dirci in tanti: "Silenzio, lui e i suoi ti ascoltano!" e abbiamo paura che qualche furbo trovi il modo di fartela pagare, come ha già fatto in tante occasioni. Una certa ditta per i rifiuti ci ha intossicato l'ambiente, ma guai a dirlo, perché la proprietà della ditta... Il sindaco ha fatto varianti all'uso delle aree, così che ognuno teme che domani tocchi a lui sentirsi dire che lì passerà una strada, che quell'area è edificabile oppure no; che quelle modifiche che magari vuoi fare alla tua casa, ti vengano proibite...
Senza accorgerci, lentamente in tanti noi ad Adro ci siamo lasciati invadere dalla paura, non degli stranieri, ma del capo del Comune che, avendo ricevuto da tanti altri di noi i voti, si comporta come il padrone di tutto e di tutti. Una volta ero convinta che lui fosse convinto di fare il bene di Adro, ma dopo la figuraccia prima per la mensa scolastica e adesso con la scuola del Sole delle Alpi, siamo in tanti a doverci svegliare dal sonno profondo a causa del quale non ci siamo più occupati delle cose della politica, pensando che tanto... chiunque fosse stato eletto, qualcosa di buono avrebbe fatto.
Invece ci siamo sbagliati ed io spero proprio che la manifestazione di sabato abbia convinto tanti
come me che non si può restare chiusi in casa e permettere ad altri di fare i loro comodi. Ringrazio di nuovo tutti i partecipanti alla manifestazione di sabato; mentre passavano io ho pregato il Rosario perché non succedesse niente di grave. Chissà se del fatto che ho pregato sono stati contenti i sacerdoti di Adro; non capisco più niente nemmeno di quelli, perché più che a predicare il Vangelo, mi sembrano impegnati a far politica col sindaco. Ho pregato comunque anche per loro.

Una cristiana di Adro

BresciaOggi – lettere al Direttore, 21 settembre 2010

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martedì 21 settembre 2010

Newsletter n.32/2010 - La discriminazione invisibile

Osservando ciò che mi sta intorno per notare il dettaglio stonato, ne trovo tanti anche dentro di me. Mi viene in mente una storia, che non so se può chiamarsi storia visto che è realtà, esperienza presente. E così decido di partire da questa storia reale per osservare come agiscono già dentro di me inconfessate discriminazioni di cui mi scopro responsabile.
Quando si parla di discriminazioni non sempre è necessario focalizzare lo sguardo su razza o
religione dell’oggetto osservato. Tutto può essere discriminato, separato, allontanato…
Le scelte quotidiane sono spesso discriminatorie; la ricerca della meritata quiete e il desiderio della semplificazione possono talvolta essere discriminatori: scegliere la via più facile lascia al loro destino tutti coloro che ingombrano le altre vie.
E in questo mio quotidiano mi capita di osservare una mamma che per il fatto di avere più di due figli scopre di essere poco cercata o invitata per quei momenti di svago tra amiche di cui tutte noi
possiamo sperimentare il piacere ogni volta che accadono o ci vengono proposti. Ma con tre bambini non sarebbe tanto uno svago…
Osservo che questa madre è anche tagliata fuori dal mercato del lavoro perché offre bisogni, ma questo si sa… O, quanto meno, i bisogni sono la cosa più visibile della sua vita. In realtà offre molto di più, con tutte le cose che sa fare. È tagliata fuori dall’accesso ai consumi, anche quelli stupidi e superflui, dai quali invece ciascuno di noi si lascia volentieri tentare (e a volte cede), e anche lei sarebbe spinta a cedere. È impedita nella fruizione delle proposte culturali della città: il cinema, il teatro, il festival… come si fa con tre?
La reazione spontanea dell’uomo comune della strada (e della donna comune) è peggiore del disagio che lei prova: “Perché ne ha fatti tanti nella sua situazione?”. È il coltello che taglia via quel residuo di autostima grazie al quale lei pensava di potercela fare. Anche da sola. Anche se il compagno ha dovuto cacciarlo via per motivi gravi, per le violenze quotidiane che sembravano normalità, finché non ha capito che di violenze vere si trattava. È un coltello che la separa da noi ‘fortunate’.
Osservare da fuori è già in parte discriminare, separare da sé, pur essendo necessario a volte mettersi al di fuori per poter vedere, per poter aiutare a vedere la propria condizione, che non è l’unica condizione possibile, non è assegnata dal destino.
Questa storia è vera, accade vicino a noi, e non è solo una. Sono tante, ma il pudore delle protagoniste le tiene velate. Eppure alcuni di noi (gli altri) abbiamo occhi anche specialistici, professionali per vedere… mi viene il dubbio che “essere professionale” voglia dire assegnare la pratica a un percorso e metterla poi in una casella delle “evidenze”. Uso il linguaggio amministrativo perché è quello che le protagoniste di queste storie si sentono spesso rivolgere, è il linguaggio che io stessa a volte uso, forse per separare da me un’ “evidenza” insopportabile, se dovessi davvero entrarci. Metto a tacere i sensi di colpa con la sicurezza di aver evaso bene una pratica (sostantivo) avendo fatto il possibile. Ma nella vita pratica (aggettivo) ci sono tempi e azioni diverse. Cose che accadono anche mentre le nostre pratiche-sostantivo giacciono in attesa delle “integrazioni richieste”.
Osservo questa madre, questa donna, questa storia, con il profondo sconforto della mia autostima che vacilla a questo punto, il punto in cui scopro che anch’io scelgo strade facili lasciando gli altri alle loro personali salite. Mi sento stonata in un coro stonato.

Lucia Papaleo

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martedì 14 settembre 2010

Newsletter n.31/2010 - Giornalismo genetico

La presenza di questo gene nel sangue è la dimostrazione che questi
zingari sono esseri irrecuperabili.
Eva Justin, scienziata razzista a servizio del regime nazista

I rom […] e l’illegalità insita nel loro DNA
Roberto Poletti, giornalista, 9 settembre 2010

La Commissione Europea ha aperto ieri una procedura di infrazione nei confronti della Francia per l’espulsione delle persone rom. Questa è l’unica notizia confortante nella lettura della rassegna stampa in una settimana non affatto rassicurante.
Molti giornalisti si confrontano con la realtà rom, una realtà complessa e variegata, usando impunemente stereotipi che hanno accompagnato le mille vicende di persecuzioni subite nel corso dei secoli dalle popolazioni sinte e rom. Essi dimostrano, attraverso i loro commenti, di aver perso ogni senso del limite.
Rom accostati indistintamente a delinquenti; rom visti esclusivamente come un problema, una massa indistinta da eliminare, espellere, deportare; rom descritti come un gruppo generalizzato, privati della loro individualità.
Articoli che ci dimostrano quanto il sentire anti-rom sia fortemente radicato nella società, quanto esso sia condiviso, scontato, quanto esso non faccia scandalo. Nei confronti delle minoranze rom e sinte, ci si permette di dire qualsiasi cosa senza il timore di essere condannati. E’ preoccupante il clima di assuefazione che si è venuto a creare nella società italiana di fronte alle violazioni subite da tali minoranze.
L’articolo di commento I rom sono un problema della Romania (Cronacaqui, 11/9) si distingue fra i tanti letti questa settimana per i suoi contenuti razzisti. Francesco Bozzetti a proposito della “questione rom” propone alcuni suggerimenti come, per esempio, impedire la circolazione dei rom in Europa, suggerendo in sintesi di violare la direttiva europea sulla libera circolazione delle persone: “[…] alla Romania […] avremmo come minimo dovuto chiedere di impedire la libera circolazione dei delinquenti e dei rom, che sono da sempre un loro problema, una loro etnia. Gli stessi romeni non amano i rom, non li vogliono e li ‘esportano’ volentieri all’estero come fanno con i loro criminali”.
Riferendosi alla situazione milanese aggiunge “[...] periferie, sottoponti e fabbriche dismesse invase dalla peggior specie di zingari dediti a furti, spaccio di stupefacenti”.
Esemplare, poi, per i suoi contenuti è il seguente articolo: Sottile differenza tra PD e destra sulle case ai rom (Libero Milano, 9/9). Il giornalista Roberto Poletti, nella rubrica intitolata Grane, spiega la differenza fra i due schieramenti politici a proposito della questione dell’attribuzione dei 25 alloggi Aler (alloggi che escono dalla graduatoria ufficiale) ad alcune famiglie rom che attualmente risiedono nel ‘campo’ di Triboniano.
Inizio a leggere l’articolo e ad un certo punto mi imbatto in una teoria classicamente razzista: “l’illegalità insita nel loro DNA”.
Leggo e rileggo più volte, sperando di essermi sbagliata: DNA, DNA?
Purtroppo non è così, ho letto bene, il giornalista ne fa proprio una questione genetica. Già i nazisti, attraverso i loro scienziati razzisti, avevano elaborato una pseudo teoria sulla pericolosità della ‘razza zingara’ tarata da un gene molto pericoloso, il Wandertrieb (l’istinto al nomadismo). Questo bastò a condannare rom e sinti allo sterminio.
Per un attimo mi si annebbia la mente, rimango basita, sconvolta e profondamente lesa nella mia stessa identità.
Frasi come queste pesano e pesano come macigni, perché sei sinta e rom, se sai cos’è il Porrajmos, se la pianificazione razzista e omicida del passato ha colpito la tua famiglia, se solo per caso i tuoi cari sono riusciti a scampare alla furia del regime nazifascista e alle fiamme dei lager; se ogni giorno ti accorgi di quanto il tuo Paese abbia dimenticato quel passato, e anzi ne invochi il ritorno, frasi come quelle ti fanno inorridire.
E io sono sinta.

Visto che ci sono giornalisti che violano quotidianamente il codice deontologico attraverso l’istigazione all’odio e al razzismo mi sembra doveroso, e storicamente corretto, ricordare che furono più di 500.000 le persone rom e sinte vittime dello sterminio pianificato e commesso dal nazi- fascismo.
Domenica 5 settembre ho partecipato alla celebrazione della Giornata europea della cultura ebraica. Mi hanno colpito fortemente le parole del Presidente della Comunità ebraica di Mantova Fabio Norsa, quando ha ricordato ai presenti che gli Ebrei non vogliono essere relegati all’immagine di vittime della Shoah ma considerati comunità portatrice di una cultura millenaria. Ho provato un po’ di invidia per quelle parole: quando sarà possibile per noi sinti e rom fare un passo del genere?
Anch’io, come capita a molti ebrei, desidererei non dover tornare sempre sul tema del genocidio, ma purtroppo gli stereotipi, i pregiudizi e le barriere da superare sono ancora infiniti.
Forse tutto ciò sarà possibile solo se ci sarà una concreta elaborazione di quello che è stato il genocidio dei rom e dei sinti.
Purtroppo però la nostra è una memoria mutilata, completamente ignorata da molti.
Oggi per molti sinti e rom non è nemmeno possibile dichiarare la propria identità, se dichiararti per ciò che sei significa essere automaticamente equiparato al peggiore dei criminali.
Il Porrajmos però fa parte della storia d’Italia e d’Europa e tutti hanno il dovere di sapere e di tenere a mente, giornalisti compresi.

Eva Rizzin

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martedì 7 settembre 2010

Newsletter n.30/2010 - Il cattivo esempio dei cugini d'Oltralpe

Questa volta è il turno della Francia. Dopo il crollo di consenso nelle elezioni regionali, la faida interna con l’ex-primo ministro de Villepin che prepara una scissione, e una serie di scandali più o meno seri – inclusa una scenata di gelosia sul set di Woody Allen – il presidente Sarkozy corre ai ripari. Qualche anno fa, nel 2005, furono le auto bruciate nelle banlieue di Parigi, Lione, Marsiglia a fornire all’allora astro nascente della politica francese e ministro dell’Interno l’occasione per inscenare lo spettacolo del ‘law and order’. È tempo di un remake, ma questa volta sono i rom a fornire la materia prima e l’Italia di Berlusconi e della Lega a metterci il canovaccio. E allora assistiamo di nuovo a rimpatri di massa, ai blitz dei poliziotti mandati nei campi rom alle cinque di mattina a spargere terrore tra donne, uomini e bambini insonnoliti, alle ruspe che li accompagnano e distruggono baracche di fortuna e con esse ricordi di famiglia, foto, pupazzi di pezza e giocattoli.
Tutte cose che abbiamo già visto nel passato recente e lontano, ma questo non diminuisce il disgusto e il senso di profondo orrore per una politica che cerca capri espiatori nei più deboli, in quelli che hanno meno risorse per difendersi.

Il fatto che tra i rom ci siano anche alcuni che commettono reati, non mancherà qualche criminologo a ricordarcelo, non rende queste misure che colpiscono i rom tutti indistintamente in quanto gruppo etnico meno violente e oltraggiose. E se proprio si vuole parlare di crimini e reati, di giustizia, moralità e sicurezza, non si può che constatare l’assurdità e l’assenza di senso del ridicolo di politici corrotti e corruttori, inquisiti per reati gravi e a volte gravissimi che fanno la morale e si accaniscono contro delle persone che per sopravvivere talvolta rubicchiano una borsa, una pecora, dei pezzi di metallo, qualche volta un appartamento.
Il senso di oltraggio per queste misure è diffuso, a macchia di leopardo, in tutta Europa e oltre, ma con qualche assenza di rilievo.
Mancano, come era già accaduto nel 2008 in Italia, le voci dei partiti socialdemocratici, di quelli che per calcolo elettorale non possono abbandonare le parole d’ordine della sicurezza, e che dovrebbero invece affrontare in maniera ben più complessa la questione dei pregiudizi razziali e la lotta alle discriminazioni. Mancano, o sono comunque appena udibili, le parole dei politici romeni e bulgari sempre un po’ a disagio a dover prendere le difese dei rom e preoccupati piuttosto da eventuali ritorni di massa. E manca la voce della Commissione Europea in forte difficoltà a criticare uno degli assi portanti dell’Unione.

Ora aspettiamo con preoccupazione i risultati del vertice dei ministri dell’Interno dell’Unione Europea convocato dalla Francia. Maroni e il governo italiano non hanno mancato di esprimere soddisfazione per aver fornito al cugino francese un modello di intervento da seguire. Il rischio a questo punto è che il modello italiano di gestione dei migranti rom, con l’avvallo della Francia e di qualche altro governo in cerca di facile consenso, da eccezione diventi invece la norma. E che la ripetizione, il lento lavorio, i graduali slittamenti della soglia dell’accettabile e del tollerabile finiscano col produrre assuefazione e rendere normali le misure di esclusione razziale verso le comunità rom.

Nando Sigona, Refugee Studies Centre, Università di Oxford e OsservAzione

Leggi la Newsletter n.30/2010

martedì 31 agosto 2010

Newsletter n.29/2010 - L'incitamento contro Rom e Sinti

Se qualcosa, qualunque cosa, non va, per molte persone sembra indispensabile dare la colpa all’Altro. Qualche esempio.
Un’anonima (si dice “allibita”) invia alla rubrica delle lettere di un quotidiano una protesta contro il decadimento del proprio paese: Villimpenta era da ammirare una volta, non certo ora, purtroppo (Voce di Mantova, 26/8), e dopo aver scritto per tre colonne supiazza, festa, risotti perduti, conclude a sorpresa con “Intanto ci restano i furti nelle abitazioni, extracomunitari seduti al bar tutto il giorno (tanto sono mantenuti...) e fossi pieni di erbacce”.
Osserviamo anche come scatta il cortocircuito: "Mia madre è senza casa ma ha meno diritti dei rom" (lettera di Vivian Bracchi, Cronaca qui, 28/8), dal titolo è facile intuire il contenuto, ma ecco il gancio pericoloso: un editoriale prende spunto da questo sfogo e attacca con La miccia è accesa (editoriale di Andrea Miola, Cronacaqui, 28/8).
Miola dice che di lettere come quella ne arrivano tante, troppe, e sono terribili, da censura, tanto che teme l’insurrezione popolare, nella fattispecie contro le persone rom e sinte. Come mai signor Miola? Solo perché nelle ultime settimane, tanto per restare nei tempi recenti, buona parte della stampa ha costruito un clima di terrore? Invasione di rom al parco dei bimbi (sempre su Cronacaqui, 28/8), ad esempio, che è stato pubblicato nel giorno in cui la stampa dava la notizia di un bambino morto tra le fiamme della miseria. [...]


In questo contesto di pregiudizi e azioni razziste contro le popolazioni rom e sinte ci pare importante la segnalazione e le argomentate riflessioni di questi amici, Franca Ruolo e Alan Pona, che hanno analizzato un’unità didattica, Dammi qualcosa, contenuta in un libro di lingua italiana per stranieri (L2) edito nel 2003, Foto parlanti, largamente diffuso nelle librerie e, ciò che ci preoccupa maggiormente, anche consigliato da chi si occupa di intercultura.
Leggi Foto parlanti, il linguaggio del razzismo.


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martedì 24 agosto 2010

Newsletter n.28/2010 - Siamo vittime?

Non voler conoscere la verità su se stessi è la forma contemporanea del peccato (Kazimir Brandys)


Insicuri, molestati, infastiditi e minacciati: siamo vittime?
Nel dicembre 2009 l’indagine annuale del quotidiano Italia Oggi indicava Mantova come prima città italiana per sicurezza e qualità della vita. In pochi mesi siamo piombati nel vortice del bisogno di sicurezza, nel labirinto delle sensazioni di pericolo che diventano dati di realtà per legittimazione istituzionale. Il consigliere De Marchi afferma, in una lunga intervista sulla Voce del 12 agosto, di volere un osservatorio sulla “percezione della sicurezza” per capire come mai nei quartieri “ci sono situazioni crescenti di disagio e delinquenza mentre le statistiche dicono che i reati calano”. In molti fingono di ignorare l’esistenza di intere biblioteche di scritti che dimostrano come ogni ‘giro di vite’ – dall’approvazione del pacchetto sicurezza all’incomparabilmente più grave microviolenza nazionalista ed etnicizzata che ha preceduto l’esplosione delle guerre jugoslave degli anni Novanta e il genocidio ruwandese – sia stato preceduto da intense campagne mediatiche che seminavano tra la gente il senso dell’insicurezza, dell’oscura minaccia proveniente da un altro che si vuole ad ogni costo sconosciuto e pericoloso, anche quando è vicinissimo da sempre. Da anni Articolo 3 ‘osserva’ la stampa in questo senso; se facessimo entrare nel nostro monitor anche le Tv locali avremmo un’idea più precisa di come gli immigrati, i sinti, i rom siano presentati ogni sera come minacce all’ordine e alla sicurezza dei ‘poveri’ cittadini. Che poi la violenza omicida si consumi all’interno delle famiglie, che l’illegalità che pesa davvero sulle tasche dei cittadini spesso indossi il doppiopetto, che racket e malavita si celino dietro forme di imprenditoria apparentemente ineccepibili – ma in realtà deviate e colluse con le mafie –, che gli abusi sui minori viaggino via internet e siano compiuti spesso da irreprensibili cittadini, di questo pare che gli italiani tendano a dimenticarsi. “Non voler conoscere la verità su se stessi …”
Sarebbe utile anche capire quali meccanismi psicologici allignino sotto la dilagante pratica della delazione: Mendicante davanti al negozio. L’allarme: “Molesta i clienti” (Gazzetta, 22 agosto), sono decine i titoli di questo genere sulla stampa regionale e le segnalazioni che affiorano dalla lettura dei quotidiani locali. Ci sono mantovani che telefonano alle forze dell’ordine per segnalare gli accattoni, sempre, in quanto tali, molesti. E questa notizia ci spaventa perché la pratica della delazione ha una storia antica e tremenda. E, per non andare troppo in là, basterebbe ricordare che il fascismo si è retto fin dall’inizio sull’incoraggiamento alla delazione, sull’uso delle spie.
Mi dà fastidio, infastidisce i clienti del mio negozio, è brutto e sporchino, puzza, è troppo giovane e ben vestito per chiedere l’elemosina, si finge invalido, è lamentoso, è arrogante? Comunque avverto chi di dovere per farlo sparire: mi molesta e mi irrita.
Forse non tutti i mantovani sono così; forse la maggioranza è ancora serena, generosa e solidale. Chi lo sa… per ora! Ieri mattina in Valletta Paiolo un giovane fisarmonicista allietava le strade creando con la sua musica un’atmosfera d’altri tempi. Chiedeva sorridendo un aiuto. Da più di una finestra sono stati lanciati pacchettini di carta contenenti monete. Il ragazzo raccoglieva, ringraziava, continuava. Nessuno sembrava sentirsi molestato, qualcuno, come me, deve persino aver pensato che senza di lui la mattina sarebbe stata più triste.
Per un momento ho avuto la bella sensazione che nella mia città i “buonisti” siano ancora molti, almeno in periferia.

Maria Bacchi

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martedì 27 luglio 2010

Newsletter n.27/2010 - L'inermità armata dell'uomo-figlio

Per esprimere il concetto su cui intendo portare la mia riflessione si usa di solito una parola dotta, ossimoro, accostamento di due parole di senso contrario. In modo più semplice e più diretto si può dire che il dominio dell’uomo sulla donna si distingue da tutti gli altri rapporti storici di potere per le sue implicazioni profonde e contraddittorie.
Innanzi tutto, la confusione tra amore e violenza: siamo di fronte a un dominio che nasce e si impone all’interno di relazioni intime, come la sessualità e la maternità. Ci sono parentele insospettabili che molti non riconoscono o che preferiscono ignorare. La più antica e la più duratura è quella che lega l’amore all’odio, la tenerezza alla rabbia, la vita alla morte. Si distrugge per conservare, si uccide per troppo amore, si idealizza l’appartenenza a un gruppo, una nazione, una cultura, per differenziarsi da chi ne è fuori, visto come nemico.
In uno dei suoi saggi più famosi –Il disagio della civiltà (1929) – Freud, dopo aver descritto Eros e Tanatos, amore e morte, come due pulsioni originarie, è costretto a riconoscere che sono meno polarizzate di quanto sembri. E dove l’intreccio è più sorprendente è proprio nel rapporto con l’oggetto d’amore.

“L’uomo non è una creatura mansueta, bisognosa d’amore, capace, al massimo di
difendersi se viene attaccata; ma occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche
una buona dose di aggressività. Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un
eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria
aggressività, a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, ad abusarne
sessualmente senza il suo consenso, a sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, ad
umiliarlo, a farlo soffrire, a torturalo e a ucciderlo”. (nota1)


Anziché limitarsi a deprecare la violenza, invocando pene più severe per gli aggressori, più tutela per le vittime, forse sarebbe più sensato gettare uno sguardo là dove non vorremmo vederla comparire, in quelle zone della vita personale che hanno a che fare con gli affetti più intimi, con tutto ciò che ci è più famigliare, ma non per questo più conosciuto.
Gli omicidi, gli stupri, i maltrattamenti fisici e psicologici che hanno come oggetto le donne, sono oggi ampiamente documentati da allarmanti Rapporti internazionali, riferiti dalle cronache dei quotidiani, gridati in prima pagina quando sono particolarmente crudeli o spettacolari. A uccidere, violentare, sottomettere, sono prevalentemente mariti, figli, padri, amanti, incapaci di tollerare pareti domestiche troppo o troppo poco protettive, abbracci assillanti o abbandoni che lasciano scoperte fragilità maschili insospettate.
Nessuno sembra trovare inquietante che il corpo su cui l’uomo si accanisce sia quello che gli ha dato la vita, le prime cure, le prime sollecitazioni sessuali, un corpo che l’uomo ritrova nella vita amorosa adulta, e con cui sogna di rivivere l’originaria appartenenza intima a un altro essere.[...]Continua a leggere il saggio di Lea Melandri


martedì 20 luglio 2010

Newsletter n.26/2010 - L'imbarcazione è stata sequestrata: dei naufraghi nessuna notizia

Ma com’è possibile chiamare informazione quella che viene data dai nostri telegiornali?
Martedì 20 luglio, Tg 2 delle ore 13. La notizia, data con scarsissimo rilievo e taciuta da molti altri telegiornali, è questa: una barca a vela di diciotto metri, è stata bloccata la scorsa notte dai militari della Sezione Operativa Navale della Guardia di Finanza di Otranto. A bordo 60 immigrati di etnia afgana ed iraniana, la metà dei quali donne e bambini anche molto piccoli, tutti stipati sottocoperta. I finanzieri hanno arrestato i due "scafisti", entrambi di nazionalità turca, con l'accusa di traffico di esseri umani e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Dai primi accertamenti delle "fiamme gialle", sembra che il viaggio per mare, cominciato in Turchia, sino alla costa pugliese sia durato almeno cinque giorni. Il Tg conclude il servizio comunicando che l’imbarcazione è stata sequestrata.
Niente viene detto circa la sorte degli esseri umani che erano a bordo della barca a vela; tutti in fuga da paesi devastati dalla guerra e da una dittatura che tutti i media occidentali concordano nel definire feroce. Respinti? Sistemati in un Centro di identificazione ed espulsione? Informati circa il loro diritto di chiedere asilo politico? La Rai non ce lo dice, c’è ben altro di cui parlare in un afoso mezzogiorno d’estate.

Forse qualcuno dei sessanta afgani e iraniani bloccati a Otranto fra qualche mese finirà a chiedere l’elemosina per le nostre strade, forse incontrerà vigili che niente sanno dell’inferno dal quale è fuggito e lo multeranno per accattonaggio molesto. Se non troverà alloggio e cercherà un riparo di fortuna sotto un ponte o in un giardino pubblico potrà essere multato per bivacco e probabilmente verrà incriminato per il reato di clandestinità. E’ facile che accada, anche perché l’Italia è, scandalosamente, l’unico Paese dell’Unione Europea nel quale manca una legge organica sui rifugiati e i richiedenti asilo.

Che persone disperate, impossibilitate a rientrare nel proprio paese d’origine, escluse dal mondo del lavoro, cadano nelle mani di chi li sfrutta è possibile, ma sul racket dell’accattonaggio, al quale le ordinanze di divieto fanno continuamente riferimento, occorrerebbero notizie certe, dato che quelle che circolano attualmente riguardano quasi esclusivamente l’uso di minori: situazioni, del resto già, opportunamente, perseguite per legge.

Francamente troviamo difficile comprendere le parole dell’Assessore De Pietri, così come compaiono sulla Gazzetta di Mantova di oggi: “Attenzione a non confondere accattoni molesti e parcheggiatori abusivi. I primi tengono un comportamento sbagliato perché fanno capo a un racket; i secondi vanno aiutati […]”. Strana distinzione. Alcune amministrazioni, come quella romana, parlano di racket dei parcheggiatori abusivi; altre si limitano a denunciare lo spostamento organizzato di gruppi di accattoni dai comuni dove entrano in vigore ordinanze come quella mantovana a quelli in cui l’elemosina non è perseguita. In ogni caso tutte le associazioni che si occupano seriamente di tratta di esseri umani e di racket di ogni tipo insistono sulla necessità di interventi in difesa delle vittime del racket, non certo sulla loro punizione. Difesa molto spesso affidata ad associazioni di volontariato. E anche a questo proposito l’assessore sbaglia tiro, invitando chi protesta contro l’ordinanza antiaccattonaggio a impiegare il proprio tempo nel volontariato. La maggior parte di noi lo fa da anni, felice di donare gratuitamente il proprio tempo per le cause in cui crede.

Maria Bacchi

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mercoledì 14 luglio 2010

Newsletter n.25/2010 - Srebrenica e noi

Una risoluzione del Parlamento Europeo del 15.10.2009 ha chiesto al Consiglio d’Europa di dichiarare l'11 luglio giorno della memoria del massacro di Srebrenica, invitando tutti i paesi a commemorare e onorare le vittime e i loro familiari superstiti.
Invece l’11 luglio 2010, quindicesimo anniversario dello sterminio di 8346 musulmani bosniaci inermi, è passato nel chiassosissimo silenzio della finale del campionato mondiale di calcio. Pochissimi quotidiani (la Repubblica, tra questi, con i bellissimi contributi di Guido Rampoldi e Adriano Sofri) hanno ricordato quel crimine contro l’umanità compiuto dai serbo bosniaci sotto lo sguardo muto e connivente del contingente olandese dell’Onu che avrebbe dovuto proteggere l’enclave di Srebrenica. Fu il punto più basso della guerra che, tra il 1991 e il 1995, ha condotto alla distruzione della Federazione jugoslava in nome degli interessi particolari delle repubbliche che la componevano; anzi dei loro gruppi dirigenti. Stupri, massacri di civili inermi, crudeltà inenarrabili si sono incrociati provocando decine di migliaia di morti, milioni di profughi, la distruzione dell’economia e delle infrastrutture, la devastazione di città e opere d’arte. E la lacerazione, che pare incurabile, del tessuto civile. Tutto fu programmato e pilotato da leadership fortemente contaminate da interessi economici privati e internazionali e da connivenze mafiose, da mass media lucidamente e ferocemente azionati per innescare la miccia dell’odio verso l’altro. Un altro che fino a poco prima non era altro, ma vicino di casa, compagno di scuola, collega di lavoro.
La parola d’ordine era “pulizia etnica”. Che significava cancellare dai territori dei nuovi stati-nazione la presenza delle minoranze che da sempre vi abitavano. Accadde negli anni Novanta a poche centinaia di chilometri da noi. Il mondo guardava e non capiva; le diplomazie internazionali sembravano operare per rinfocolare le violenze. Senza cercare di conoscere i fatti e comprendere le responsabilità, ci commovemmo sui bambini feriti, ma preferimmo chiudere gli occhi sugli anziani torturati e uccisi, sulle madri e sui padri che videro massacrare i figli e violentare le figlie, sui bambini che videro violentare le madri e torturare i padri. Chi fuggì da quell’orrore spesso lo fece per non dover usare le armi, ma la maggioranza voleva solo vivere.
In questi anni quei rifugiati hanno vissuto tra noi, il più delle volte muti. Non abbiamo imparato niente dalla loro storia. Perché è difficile da capire e perché nel nostro Paese profughi e migranti molto raramente hanno voce e ascolto. Se siamo ‘politicamente corretti’, magari parliamo noi al posto loro, ma raramente ci viene in mente di dar loro la parola. Se avessimo ascoltato avremmo forse capito il mostruoso significato dell’espressione “pulizia etnica” e oggi solo pochi pazzi avrebbero l’ardire di usarla.

Forse non era pazzo, invece, il signore mantovano che un’amica ha incontrato in panetteria l’altro giorno. Un mendicante era entrato chiedendo un po’ di pane, che il fornaio silenziosamente gli ha dato. Un cliente, molestato e irritato dalla scena, ha esclamato: – Ma questa amministrazione non aveva promesso di fare un po’ di pulizia etnica!? –
Come evitare che questa follia ‘per bene’ ci contagi?

Maria Bacchi

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mercoledì 7 luglio 2010

Newsletter n.24/2010

“Sono riusciti a raccogliere 150 euro per finanziare i campi scuola estivi, ma dovranno pagarne 300 di multa perché hanno esposto un "listino" dei prezzi di torte, panini e bibite offerte sul piazzale della chiesa. La disavventura è accaduta ai ragazzi della parrocchia del Sacro Cuore a Mestre, che domenica mattina avevano allestito un banchetto per raccogliere soldi da destinare al campo estivo, com'è uso in tutte le parrocchie”.

Lo racconta il 9 giugno il Gazzettino di Venezia. E non si sa se ridere o piangere per questa brillante impresa dei vigili di Mestre. Anche perché i prezzi erano scritti su un cartellone tutto colorato, per gioco. A qualche commerciante della zona, si legge sul blog del Gazzettino, quella vendita ‘fuori luogo’ ha dato fastidio e ha chiamato la guardia municipale.

Sì, la gente si fa di giorno in giorno più irritabile e insofferente e chi governa cerca di prestare molta attenzione alla suscettibilità degli elettori. Nel novembre scorso, la Nazione annunciava che, grazie a un’ordinanza municipale, a Firenze: “Verranno colpiti, con multe che vanno da 80 a 480 euro, anche i falsi mimi e le persone che infastidiscono i clienti dei locali pubblici suonando qualche strumento”. E distinguere un mimo falso da uno vero non deve essere operazione facilissima per i vigili del capoluogo toscano, che già da anni sono impegnati a lottare anche contro i lavavetri. Qualcosa di simile deve accadere anche a Napoli; ma laggiù, si sa, l’arte di arrangiarsi per sopravvivere si è affinata nei secoli. Così, racconta un amico, davanti ai ristoranti si vedono musicanti col tradizionale mandolino coperto da un cartello ‘antimolestia’ che recita: “Non suoniamo per non disturbarvi”.
L’importante, in estrema sintesi, è non molestare. Ma la molestia è un fattore soggettivo: a qualcuno dà molto fastidio il rumore dei capannelli degli utenti serali dei bar; qualcun altro si infastidisce per la musica a tutto volume che intrattiene gli anziani nei pomeriggi estivi in un parco cittadino; altri non sopportano nemmeno le voci dei bambini che giocano in cortile. E c’è da dire che di ordinanze restrittive i comuni ne emettono di ogni tipo, proprio per far fronte al tasso crescente di insofferenza per il prossimo che la gente al giorno d’oggi mostra.
Così anche Mantova...

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martedì 29 giugno 2010

Newsletter n.23/2010

Le decisioni del Governo in materia di economia non sono argomento di discussione dell’Osservatorio, sempre che queste – al pari di altre decisioni, norme, atti – non vadano a ledere la parità di trattamento. In questi giorni il data base che contiene la rassegna stampa regionale (Lombardia) ci segnala una serie di articoli che parlano dei tagli previsti dalla manovra finanziaria e se compaiono, ossia se vengono selezionati dal gruppo di esperti che abbiamo formato al radar dell’Osservatorio, un motivo c’è. Occorre capire di che cosa si parla. Uno degli interventi previsti dal Governo consiste nell’innalzamento della percentuale di invalidità che dà diritto all’assegno mensile di € 255,13 corrisposto alle sole persone che non superano il reddito annuale personale di 7.500 euro per lavoro dipendente, o 4.500 euro per lavoro autonomo, cioè a chi non riesce neppure a mantenersi, perché significa guadagnare non più di 625 euro al mese, vergognosamente lordi.
Dunque, stando alla finanziaria, non si tratta di “toccare” le già misere pensioni, questo no, si tratta di trasformare le persone disabili in persone sane. Se la manovra sarà approvata, la percentuale di invalidità richiesta per avere accesso all’assegno passerà dall’attuale 74% all’85%. Quindi? Se oggi ti presenti alla commissione medica e questa ti giudica persona con una “incapacità lavorativa” quantificabile in una disabilità dell’80% (guardate che è altuccia, un bel guaio!), allora sei ufficialmente disabile, è confermato: se non lavori hai diritto ad una mano, puoi iscriverti alle liste del collocamento obbligatorio, sei esente dai ticket, ecc. Se invece ti sottoponi alla commissione tra qualche mese...magia! Non sei più disabile, o almeno non così tanto da avere diritto ad un aiuto economico.
“C’è bisogno di un’azione forte contro i falsi invalidi, che privano di risorse le persone che ne hanno veramente diritto”, dicono dal Ministero competente, e tutti non possono che essere d’accordo, ma che c’entra questo con la decisione di alzare la percentuale?

Angelica Bertellini

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martedì 22 giugno 2010

Newsletter n.22/2010

Al calciatore africano discoteca vietata (Corriere Milano, 19/6). La prima scusa addotta per non fare entrare il ragazzo in questa discoteca del bergamasco è stata che non aveva l’abbigliamento adatto, il suo allenatore gli ha quindi fornito indumenti firmati, con i quali si è cambiato. Niente da fare, a quel punto la risposta è stata “locale pieno”. Peccato, però, che il mister, messosi da una parte, ha potuto notare l’ingresso di numerose persone nel locale. A quel punto il giovane giocatore ha preso atto: “il problema non è la mia maglietta, ma il colore della mia pelle”. Il titolare del locale, che nega ogni accusa di razzismo, minaccia una denuncia per diffamazione, ma noi speriamo che parta prima quella per discriminazione razziale. Si tratta del secondo caso lombardo passato sulla stampa (newsletter n°9 e 10).

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martedì 15 giugno 2010

Newsletter n.21/2010

“Mi hanno chiamata macaco!” è la frase che a tutti ripete con ovvia amarezza Emilia, donna senegalese che da anni abita qui, lavora in una cooperativa, ha famiglia, tutti regolari e con contratto a tempo indeterminato. Perché qui nella Padania-Montichiari, quasi 25.000 abitanti, governata da 11 anni da una giunta monocolore leghista, se non hai un lavoro stabile (!?) non ti concedono la residenza. In breve: da anni l’allora sindaco Gianantonio Rosa, ora vice, ed ora, lo stesso Rosa, spalleggiato dall’allora vice, ora sindaco, Elena Zanola, fanno a loro piacimento regole e considerazioni come fossero i legislatori del Parlamento italiano. Dicono che è assurdo che si possa controllare lo stato di auto-mantenimento di un comunitario che vuole avere la residenza ufficiale in paese mentre ciò non è richiesto se trattasi di un extracomunitario, ovvero di un migrante. Quindi con lungaggini e continue richieste di informazioni rallentano le pratiche, magari nella speranza che qualche “macaco” decida di cambiare paese o tornarsene in Africa. Sì perché il signor Rosa pare anche abbia detto all’Emilia: “Voi africani venite qui a rompere i maroni!” e l’Emilia ha capito bene cosa volesse dirle...

Daniele Zamboni

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